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MA CHE FINE HA FATTO IL PIANO PANDEMICO REGIONALE?

Mi auguro che finita l’emergenza sanitaria COVID 19 ci sia modo di mettere al centro del dibattito politico regionale la sanità. A cominciare dall’assetto pre COVID 19 che a mio avviso assomiglia tanto ad un sistema feudale fatto di parità di trattamento tra il sistema privato e quello pubblico, il quale mostra tutti i suoi limiti in fase di emergenza con una errata programmazione circa le necessità dettate dall’urgenza. Anche sulla modalità di gestione della fase di emergenza ci sarà da puntualizzare la situazione.  A cominciare dalla concreta applicazione del Piano Pandemico Regionale approvato con Delibera del Consiglio Regionale n. 216 del 02 ottobre 2006. Un documento misconosciuto che non è mai citato nelle delibere e atti recenti di Regione Lombardia. Una dimenticanza voluta per nascondere le responsabilità oppure una semplice scarsa propensione a redigere atti deliberativi privi delle necessarie premesse? Già perché nel 2006 si era deliberato di stanziare per esempio 3,9 milioni di euro per acquisto di Dispositivi di Protezione Individuale da rendere disponibili in caso di obbligo di utilizzo nell’accesso ad ambulatori, strutture sanitarie e socio sanitarie. Si stanziavano anche 100 mila euro per la sorveglianza influenzale attraverso la rete dei medici sentinella. Senza entrare in altri aspetti troppo tecnici, mi permetto di osservare che a pagina 7 del deliberato di consiglio regionale, si pone in capo alla Presidenza e alla DG Sanità “in coerenza con le indicazioni nazionali l’adozione delle misure generali ….. utilizzo mascherine in ambito sanitario (sale di attesa, ambulatori, centri prelievi, pronto soccorso ecc…)”. Alle ASL (stiamo parlando di 14 anni or sono e non c’erano le ATS e le ASST), spettava il compito di definire il fabbisogno dei presidi di protezione, le modalità di approvvigionamento, stoccaggio, distribuzione oltre alle dotazioni di un quantitativo adeguato di scorta per la distribuzione ai MMG/PLS. In ottemperanza a quanto stabilito dal Consiglio Regionale, l’ASL di Brescia nel dicembre del 2013 aggiornava il “Documento locale per l’attuazione del Piano Regionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale e revisione della composizione del Comitato Pandemico Locale”. Nel documento è riportato il Piano stoccaggio e distribuzione presidi di protezione individuali che prevede “L’ASL di Brescia, già dalla primavera 2006, nell’ambito della prevenzione dei rischi lavorativi secondo le indicazioni integrate del Medico Competente e del Responsabile dell’U.O. Prevenzione e Protezione, con il presentarsi delle problematiche veterinarie legate al rischio di esplosione di epidemie animali di influenza aviaria H5N1, ha provveduto a predisporre:

– l’approvvigionamento di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) per i propri operatori chiamati ad intervenire presso gli allevamenti (quali cuffie, camici, tute, calzari, occhiali, maschere filtranti, guanti il tutto nella tipologia monouso con i relativi contenitori per rifiuti (Alibox) per lo smaltimento),

Oltre a verificare se quanto stabilito dal Consiglio Regionale è stato effettivamente poi attuato prima dalle ASL (almeno a Brescia direi che è confermato) e poi dalle ATS e ASST. E qui inizia a complicarsi la situazione. In un momento in cui il 40 % delle prestazioni sanitarie sono rese da privati e il 90 % della RSA sono in mano privata, in sede di accreditamento venivano esercitati controlli anche sull’assunzione del rischio pandemico? A mio avviso il settore privato che non è adeguatamente controllato nemmeno nell’ordinaria attività (basti pensare all’indagine circa i militari libici al San Raffaele di fine gennaio), tanto meno può essere validamente inserito all’interno della programmazione regionale in tema di pandemia (già peraltro disattesa). Infatti, le prime fasi dell’emergenza sono state di appannaggio solo della sanità pubblica e solo il 04 marzo c’è stata una delibera della Giunta Regionale, la numero 2905 con la quale si è ingaggiata la sanità privata. Senza mai citare il piano pandemico regionale e a testimonianza che il settore privato era fuori dal perimetro dell’emergenza. Come dire che prima di quella data il paziente COVID non era di competenza del privato. La tanto declamata eccellenza lombarda ha quindi “privatizzato” la sanità tenendola completamente fuori da qualsiasi contesto anche di programmazione a cominciare dalle prestazioni di pronto soccorso alle terapie intensive e dalla programmazione regionale in fase di emergenza e pandemia. Ma dato che il settore privato beneficia di 9 miliardi di euro all’anno di rimborsi dalla Regione Lombardia, spero che tutto questo sia attentamente valutato al termine dell’epidemia con una adeguata sessione di riflessione su quanto accaduto. Ciò non può limitarsi ad un dibattito in Consiglio Regionale ma deve essere approfondito con audizioni, pareri e documenti vari. Che si chiami commissione di inchiesta, conoscitiva, speciale non importa, l’importante è che si vadano ad analizzare i problemi della sanità lombarda.

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